Testi

Interview

(Intervista di Roberto Vidali)

Come sei approdato al mondo dell’arte?
Ho studiato all’Istituto d’arte di Firenze, poi l’Accademia di Belle Arti, ma la mia formazione è stata multiverso: ho disegnato fumetti, sono stato illustratore e pubblicitario. E’ come se avessi parlato tante lingue diverse, ma tutte ugualmente rivolte alla stessa missione: ricreare la mia immagine della realtà.

Che cosa fai a Firenze? Quali sono i tuoi contatti, le tue frequentazioni?
Il motivo principale per cui vivo qui è che qui ci sono nato, oltre al fatto che Firenze è una città difficile da lasciare, benché ci abbia provato spesso (senza riuscirvi, appunto). Fare questo lavoro significa stare troppo tempo in studio e si rischia l’isolamento. Per questo appena posso mi ritrovo con gli amici di percorso: colleghi o amici di lungo corso con i quali ho condiviso delle esperienze importanti, professionali e non. Ho amici scrittori, musicisti e designers, molti precari dal grandissimo talento.

Non ti pare che la città di Firenze sia un po’ emarginata dal contesto internazionale e che per un artista sarebbe meglio trasferirsi a Berlino?
C’è del vero nella tua affermazione: sarebbe più comodo andare a Berlino o in Cina, ma significherebbe seguire la corrente. Vedi, io preferisco un percorso più tortuoso e più rischioso. La realtà italiana è molto frantumata: è fatta da un insieme di autonomie cittadine, ognuna con la sua fisionomia, con la sua storia particolarissima, con le sue architetture. Certo, oggi Firenze non è di certo il centro del mondo, ma in questo luogo si conservano memorie prodigiose che fungono da propulsore e da pastiglia energetica. Si pensi al “San Giorgio” di Donatello, ai “Prigioni” di Michelangelo” e al “Ratto delle Sabine” del Giambologna, e poi al campanile di Giotto, alla cupola di Brunelleschi e al Palazzzo Rucellai… Come ci si può allontanare da questi segni inequivocabili?

Curiosamente mi hai parlato di sculture e di architetture e non di pittura, come mai?
Forse perché mi ritengo un architetto della pittura, uno che plasma più di uno che stratifica. Un quadro non può essere solo pittura: deve essere uno squarcio che si apre sulla ferita, una luce che illumina il dramma. Certo, uso pennelli e pigmenti, ma dietro c’è la sostanza del pensiero vertiginoso, altrimenti sarei solo un pittore manierista. Una pittura da basarsi solo sulla visione ottica o retinica, dopo la sconvolgente rivoluzione di Duchamp, sarebbe solo il passo di un pittore cieco; ecco perché, fondamentalmente, più che un pittore mi considero un architetto.

Comunque, dentro la storia dell’arte, quali sono i tuoi pittori di riferimento?
Per il passato ho profonda ammirazione per la pittura di Velazquez e Segantini, mentre tra i contemporanei considero grandissime le testimonianze di Gerhrad Richter e Neo Rauch. Il primo proprio grazie all’approccio concettuale che gli permette di saltare dall’immagine figurativa al segno astratto, il secondo per la grande libertà che si permette in termini iconografici.

Tu procedi da anni sulla strada di una ricerca che vede tra i punti programmatici il rapporto tra la pittura e il silenzio; quali sono i punti di riferimento di questa tua modalità pittorica?
Sentimenti ed emozioni, pensieri e immaginazione, suoni e parole, si fondono con il solo scopo di liberare un’energia interiore che si traduce appunto, in immagine. Ma dove si trova il punto di unione, come sia possibile fondere insieme questo fluido magmatico all’interno di se stessi se non nel silenzio del momento creativo, nell’istante in cui con il gesto fisico di fondere i colori o apporre materia sulla tela. Ti ci vuole il silenzio per evocare i tuoi fantasmi.

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